“Ma la cosa più bella è il silenzio. Certo anche questo è fallace. Può essere improvvisamente interrotto e allora tutto è finito. Per il momento però c’è ancora”.
È il silenzio che abita ne “La tana”, opera del 1931, a udirlo è un animale molto facilmente (ma inutilmente) identificabile in una talpa. Come spesso accade nelle opere kafkiane, il protagonista è un animale, fermo ad ascoltare i rumori del mondo in contemplazione statica ma allo stesso tempo in attesa di un movimento brusco che sa di pazzia.
È un autore ai limiti tra il genio disperato e il folle superbo quello incontrabile al Kafka Museum di Praga, una figura che emerge a tentoni nel buio in un percorso appositamente allestito in nero e curato nel dettaglio. Ogni cosa è scura, le tenebre saltellano sulle immagini di fotografie dei volti del passato importanti per chissà chi tempo fa, e balzano sulle scalinate rosse in fondo alle quali, a singolar interpretazione, si possono leggere epitaffi o inni alla nascita con scritte quali: “The endless office of the Man who disappeared. Everyone is welcome!”.
Gustav Janouch in “Conversazioni con Kafka”, dice che egli “annotava solo le deformazioni che non erano ancora penetrate nella nostra coscienza. L’arte è uno specchio che anticipa come talvolta l’orologio”. I disegni dell’autore, che dalle loro teche illuminano fedelmente il percorso, ritraenti metamorfosi e trasmigrazioni, parlano chiaramente del bisogno quasi disperato di riportare ogni cambiamento, qualsiasi variazione di umore e di corpo deve essere registrata, quasi che fissandola su carta si possa non tanto renderla immortale ma immobile, fissa e non mutevole in chissà quale bestia o angelo improvvisi. Per dirla con Kafka, “Non scrivo più cose reali, appunto perché questa irrealtà mi vuole oscurare la più bella realtà e io devo cercare di scacciarla mediante i miei scritti”.
È il video silenzioso ritraente un uomo solo tutto adornato di viola che vagabonda a passo spedito verso un nonnulla che testimonia la malinconia o l’ancor più spaventoso sentiero della solitudine verso l’ossessione; nel viaggio, ci sono momenti altisonanti sicurezza e ancoraggio al mondo reale, alternati ad assorbimento alienante nella dimensione rapace e istintuale probabilmente comparabile all’Es freudiano. A metà esibizione si incontrano delle cassette di sicurezza, utili e stabili per rimettere a posto i pensieri, ma perché anche queste cassette sono nere e al buio? E allora si è di nuovo vibrazioni nel caos.
“Sono semplicemente ubriaco di me. E poi c’è il mondo che ho in testa. Ma come liberare me e il mondo che ho in testa senza spezzarmi?”.
Kafka non fu un narratore ma un disturbatore, un rapitore della serenità apparente della quale nella vita ci si convince di aver bisogno: è l’esempio sacrificale di un mondo decadente che non arriverà mai alla verità definitiva nemmeno su sé stesso, confuso persino sul proprio corpo, figuriamoci se ha certezze e coraggio sufficiente per affrontare le indefinite e infinite ombre universali di qualsiasi argomento o progetto.
A cura di Isabella Garanzini